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Oggi sul mercato italiano non c'è frutta geneticamente modificata. La conferma viene da Claudio Gamberini, responsabile nazionale ortofrutta di Conad: «questo è ciò che risulta al servizio controllo qualità della nostra azienda». Anzi, Silviero Sansavini dell'Università di Bologna aggiunge che «nessuna specie ortofrutticola Ogm risulta coltivata in Italia e in Europa, né importata per la commercializzazione». D'altra parte, aggiunge il docente, nonostante non si trovino nelle normali aziende frutticole, «nei campi sperimentali italiani alcune piante da frutto transgeniche esistono: si tratta di melo, limone, albicocco, susino, kiwi, fragola e lampone».
Sansavini si riferisce alle piante coltivate prima del divieto del 1998, per esempio nelle università di Viterbo e Ancona; oppure alle coltivazioni sperimentali confinate in serra, come vuole la legge. L'effetto della trasformazione genetica consiste in questi casi nella resistenza alla ticchiolatura (melo), nella resistenza al mal secco e nell'aumento dell'attività antifungina (limone), nella resistenza al virus PPV (albicocco e susino), nel miglioramento della radicazione (actinidia), nel cambiamento dell'habitus vegetativo (ciliegio), nell'aumento del peso dei frutti e della fertilità (fragola e lampone).
A livello mondiale le tipologie di piante da frutto geneticamente modificate sono ancor più numerose. I miglioramenti apportati da queste colture sono molti e di diretta importanza economica e in molti casi rendono le coltivazioni più sostenibili.
Queste prime parziali applicazioni però, denuncia Sansavini, non fanno altro che sottolineare il divario tra le potenzialità teoriche e la realtà produttiva: «la produzione di frutta Ogm non ha avuto finora la possibilità di essere provata in Italia. E' ormai una decina d'anni che i vari ministeri agricoli hanno vietato le ricerche e le sperimentazioni. Le motivazioni di questa frenata consistono nell'adozione generalizzata del cosiddetto principio di precauzione, nel timore di mettere a rischio i marchi di qualità, e nei vincoli imposti anche ai produttori dalla grande distribuzione, che ha dovuto assecondare la sensibilità dei consumatori».
Eppure, continua il docente bolognese, i vantaggi per l'agricoltura e per l'ambiente sarebbero concreti, dalla resistenza alle malattie all'aumento della produttività all'innovazione merceologica.
Addirittura anche la frutticoltura biologica potrebbe giovarsi di alcune biotecnologie, conclude Sansavini, grazie all'applicazione della cosiddetta cisgenesi. E' una pratica che si differenzia dalla transgenesi per il fatto che il nuovo gene inserito nella pianta da migliorare non è alieno, perché deriva da una pianta donatrice della stessa specie o genere. Questa affinità «potrebbe far superare il muro, più di tipo etico e ideologico che non scientifico, che impedisce l'adozione di questa trasformazione genica nella frutticoltura biologica. Se all'utilizzo di queste nuove tecnologie “leggere” fosse dato il via libera, se ne potrebbe avvantaggiare la difesa biologica, che ancora non dispone di biocìdi o di prodotti organici sufficientemente efficaci per proteggere la produzione».